Flavia Barca, Le politiche culturali a Roma, settembre 2015 from Flavia Barca
L’ebook che vi presento (e che potete leggere e scaricare qui: Flavia Barca, Le politiche culturali a Roma, settembre 2015) nasce dal desiderio di restituire alla Capitale, con un anno di distacco utile a consolidare il ragionamento, alcune idee sviluppate in qualità di assessore alla Cultura di Roma, posizione che ho ricoperto tra il giugno 2013 e il maggio 2014.
I dossier sui quali ho avuto modo di lavorare, numerosi e che toccano alcuni dei gangli scoperti delle politiche pubbliche del Paese, mi hanno offerto un consistente patrimonio di riflessioni: le criticità del sistema teatrale italiano che fatica a dare spazio all’innovazione, la contrazione dei fondi pubblici e un rapporto pubblico-privato tutto da costruire, l’incapacità di intercettare e saper spendere fondi europei, la problematica coesistenza tra tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, l’assenza di progetti culturali nelle periferie, la difficoltà di mettere a sistema il contributo della cittadinanza attiva e molto altro.
Su questi e altri temi ho ragionato e programmato, come assessore, in un’ottica di medio e lungo periodo, e su questi temi ho continuato a riflettere dopo le dimissioni, giungendo alla conclusione che oggi, il governo di questa Città, da solo, non sia in grado di avviare un processo strutturato e virtuoso di trasformazione, la svolta necessaria per un vero cambiamento.
Mancano i creativi più brillanti, che l’amministrazione in questi anni non ha saputo selezionare e, anzi, ha allontanato, spingendoli alla ricerca di luoghi più accoglienti e premianti il merito. Manca quell’accordo sulla qualità, sul cambiamento vero, tra il Primo Cittadino e la politica, essenziale per scalzare le resistenze feudali della Città. Manca l’empatia tra governo comunale e territorio, fatta di sentimento pubblico e grande leadership. Manca la visione forte. Eh sì, all’interno del governo e dell’amministrazione di questa Città non ci sono le necessarie competenze – e visioni – per poter affrontare questi mutamenti e, laddove ci sono, non riescono ad emergere, soffocate da una macchina obsoleta, pesante e conservatrice. Una macchina che peraltro – e questo è un tema nazionale! – fatica sempre di più ad amministrare la società contemporanea, basata sull’informazione in tempo reale, la connessione e la rete, con strumenti normativi ancora legati ad una realtà di due secoli fa.
Cosa fare dunque? La mia convinzione è che la chiave sia un grande progetto collettivo, frutto di un patto tra cittadini e amministrazione.
Nel corso del mio anno al Campidoglio, ma anche in questi mesi di letture e riflessioni, molti sono i contributi rilevanti che ho avuto modo di leggere sulle politiche culturali di questa Città, molti gli esperti, addetti ai lavori, semplici cittadini con i quali ho avuto occasione di scambiare idee, numerosi gli appelli e le iniziative di singoli e gruppi organizzati che avevano per fine il bene comune. Insomma è sicuramente vitale nella Capitale l’impegno e la voglia di partecipare e produrre cambiamento. È una cosa importante ed è già molto, moltissimo. E questo lavoro, per quanto comunque parziale e perfettibile, nasce da questa spinta.
Ma anche dalla convinzione che possa e debba essere fatto di più, e che quel di più sia una grande mobilitazione collettiva organizzata.
Non si tratta – e spero emergerà con chiarezza da quello che, se avrete tempo e pazienza, potrete leggere nel mio contributo – di scaricare sui cittadini le mancanze e inefficienze del settore pubblico ma anzi, di trasformare la rabbia e la frustrazione dei cittadini in uno strumento di forza, di rinascita.
Ritengo, inoltre, che i profondi cambiamenti del rapporto tra domanda e offerta, dei bisogni sociali, del consumo, spingono con urgenza a una revisione radicale degli strumenti con cui l’amministrazione si rivolge e dialoga con i cittadini, ma soprattutto a un ripensamento della funzione pubblica. Cioè, anche nella situazione ideale, nel governo della Città più illuminato ed efficiente, senza uno scambio continuo di idee con il territorio, senza un ascolto quotidiano, senza un patto sottoposto a verifiche e valutazioni periodiche, le politiche pubbliche non riuscirebbero ad incontrare fino in fondo domande e bisogni dei cittadini.
Come ci mostrano molte città “intelligenti” e le più recenti indicazioni della Commissione Europea, la società civile, i “cittadini attivi”, sono chiamati oggi ad un contributo molto rilevante per il bene comune. Ecco, per tornare a Roma questo è urgente e necessario. Che i cittadini attivi supportino l’amministrazione con idee, progetti, visioni e metodi. Anzi, come auspico in questo contributo, con un progetto sistematico di rinascita.
Io qui mi limito ad offrire il punto di vista di una persona che ha verificato che le condizioni per operare un vero cambiamento semplicemente non c’erano e per questo ha scelto di dimettersi. Da questo nascono queste righe, dal desiderio di condividere elementi utili per costruire e guardare avanti, per non ricominciare ogni volta da capo, come capita spesso nel governo della cosa pubblica. Perché usare strumenti trasparenti e processi di valutazione condivisi consentono, a chi viene dopo, di costruire nuove pratiche su saperi già consolidati.
C’è chi sta già lavorando, fuori e dentro l’amministrazione, nella direzione di costruire il cambiamento, ma ritengo necessario un intervento di sistema, che infili le mani nelle viscere dell’amministrazione, che tocchi l’intera macchina della cultura a Roma, che la metta in discussione, che la smonti e la rimonti, e che di fatto scriva un progetto di politica pubblica sulla cultura di ampio respiro. Qualcosa che possa partire dal basso, da un vero dibattito pubblico (a cui tutti sono chiamati a partecipare, cittadini, esperti, artisti, imprenditori), quindi sistematizzato da chi ha la responsabilità di governo della cosa pubblica. Perché poi, alla fine, la responsabilità di adottare un nuovo modello di indirizzo e gestione, e di applicarlo nel migliore dei modi, è di chi ha ricevuto il mandato dai cittadini di governare la Capitale.
Questi sono mesi critici per Roma: la forte visibilità internazionale a cui la Città sarà esposta con il Giubileo alle porte, la terribile “nomea” acquisita negli ultimi mesi, l’occasione del Congresso del principale partito che sostiene la giunta, l’instabile patto con il governo del Paese, la nuova fase che si apre con l’incarico al prefetto Gabrielli di avviare l’opera di risanamento del Comune: per questo costruire e lanciare una strategia per la cultura della Capitale partendo dagli errori compiuti in questi anni oltre che dalle buone pratiche rintracciabili in altre città è un compito per il “subito”. Perché accanto al risanamento è bene iniziare a lavorare anche sulla visione di futuro. Perché il rischio è che, ancora una volta, l’emergenza (il Giubileo) distolga l’attenzione dalla “ordinaria” amministrazione di una città di una complessità unica e completamente priva di un masterplan di risanamento e rilancio.
Ecco quindi la necessità di accompagnare questa fase di bonifica e l’anno giubilare con un grande progetto pubblico partorito da una necessaria presa di coscienza e mobilitazione collettiva: da una parte i cittadini partecipativi e dall’altra un governo cittadino in grado di “accogliere” le loro sollecitazioni
Questo processo provo a delinearlo nelle pagine del mio contributo, nelle quali individuo i tre modelli di politica pubblica che hanno guidato la cultura a Roma nelle ultime consiliature (il modello intuitivo, il modello politico, il modello aperto) e teorizzo l’opportunità di adottare un quarto modello ideale, quello di valore culturale pubblico. Alla base della riuscita di questo modello di gestione della cosa pubblica ci sono tre condizioni irrinunciabili: un serio impegno nei confronti della cultura, da parte di tutti (vertice cittadino, amministrazione, sindacati, forze politiche, imprese, cittadini), composto di fiducia, responsabilità, e garanzia di risorse economiche adeguate; un metodo di forte trasparenza su cui tutta l’architettura dell’azione pubblica possa poggiare, e ferrei strumenti di valutazione; una visione, pubblica e condivisa, che coniughi la storia di questa Città, la sua identità, con una idea di futuro, di cambiamento.
Sulla base di queste tre condizioni – impegno, metodo e visione – è possibile procedere alla costruzione di un progetto pubblico, totalmente trasparente, di breve, medio e lungo periodo, di riforma della Capitale.
Parliamo di obiettivi, metodi, strumenti, risorse necessarie. E la cultura in questo quadro potrebbe e dovrebbe giocare un ruolo chiave. Si potrebbe partire proprio dalle politiche culturali. Costruire un percorso di altissimo livello, iniziando per esempio da due pagine di domande ben poste (non di risposte!) su cui raccogliere le valutazioni aperte degli operatori e trasformarle in tesi e, su queste, aprire un confronto duro e acceso ancora più largo, per decostruire e ricostruire, e quindi chiudere il percorso con una strategia.
Quindi un percorso di partecipazione “vera”. Non di solo ascolto, dove in realtà si è già deciso tutto e si usa il rumore del confronto solo come avallo. Un processo deliberativo che usi i metodi moderni, che sviluppi conflitto, che incentivi i più creativi a venire allo scoperto, che produca informazione, e poi alla fine offra le basi per una decisione, comprensibile.
Il progetto su Roma avrebbe naturalmente un costo da presentare al governo, per il quale chiedere al Paese un ulteriore sforzo, una rinnovata fiducia nella possibilità che la Capitale possa essere rigenerata. Lo status di Capitale necessita di un bilancio appropriato, all’altezza del suo ruolo, ma troppi soldi pubblici sono stati asserviti all’interesse privato, del singolo e non della collettività. È quindi necessario che, in cambio di questa fiducia, il progetto presentato sia di altissima qualità, trasparente, valutabile, rendicontabile. Il progetto di una smart city in cui la creatività abbia un ruolo rilevante e si sprigioni naturalmente dal perfetto incontro tra patrimonio culturale e innovazione.
In questo modo si chiude il cerchio: la responsabilità che il governo di Roma si assume, impegnandosi in un percorso di vero rinnovamento fatto di metodo trasparente, strumenti amministrativi innovativi e visione condivisa, è garanzia di un impegno del governo centrale, per il bene della Capitale e del Paese.
Questo contributo proverà quindi ad indicare come non ci sia modo di mettere la macchina di governo al servizio del bene collettivo della Capitale senza un grande progetto pubblico composto di netto impegno, forte visione e rigoroso metodo. E senza una rilevante partecipazione collettiva, di tutta la Città. Perché il governo della Città è solo l’espressione di chi lo vota, di chi lo sostiene, di chi lo guarda: il Campidoglio siamo noi, le nostre pigrizie, le nostre paure, le nostre incurie, i nostri desideri e sogni. E se vogliamo un governo comunale migliore, più efficace, più lungimirante, più visionario, è necessario mettersi tutti in gioco. Per cambiare, rinnovare idee, funzioni, progetti. E farlo in modo trasparente e aperto: “Il dibattito culturale sulla città si è ritirato in stanze e terrazze, con rinfreschi allestiti da fondazioni efficienti, in grado di selezionare temi e invitati affinché la discussione non fosse pesante e fonte di contrasti: una fondazione per ogni problema, quello sicuramente non manca a Roma”, scriveva lo scorso dicembre Andrea Ferraretto.
Una Città troppo a lungo divisa in feudi, politici, associazionistici, sindacali ecc., ha bisogno di ricominciare a riunirsi attorno alle idee piuttosto che a leader di dubbia consistenza. Scrive Graziano Graziani: “Ciò che è un valore incontrovertibile per un settore della città è frutto di amicizie politiche per un’altra. Ciò che per qualcuno è una manifestazione storica, per altri è il segno di una città inamovibile che non è in grado di rinnovarsi”. “Cosa significa?” – aggiunge Raimo – “Che per molti anni l’organizzazione culturale a Roma è funzionata a isole, se non a feudi, automatismi spesso divenute cancrene, con un’ignoranza reciproca rivendicata e nessuna visione di sistema”.
La grande forza della capitale è la sua debolezza, in questo Roma è perfettamente simbolo della nazione. Per secoli l’intelligenza, la conoscenza e l’ingegno dei singoli comuni italiani non è riuscita a farsi sistema, al punto che ancora oggi fatichiamo a celebrare la nostra identità di nazione. Così è Roma, frammentata a sua volta in mille piccole faide e feudi spesso non comunicanti e in lotta tra loro, o comunque non in grado di giocare assieme la grande battaglia comune per il rinnovo della Città. E spesso questa divisione, questa molecolarizzazione di strategie e visioni è stata cavalcata da una regia politica e affaristica, secondo il noto divide et impera.
È dunque arrivato il momento di superare le discussioni sterili, come sono le discussioni quando sono fuori da un’analisi sistemica.
Certo le persone contano, ed avere amministratori con visioni lungimiranti e conoscenza del territorio è un grande valore. Ma senza una struttura razionale, condivisa, senza una piattaforma di orizzonte e di metodo (un modello di valore culturale pubblico) temo che questa Città non sia recuperabile. Senza una visione ed un metodo di grande rottura e capacità innovativa questa Città continuerà ad essere catturata e piegata ad interessi privati. Anche con il migliore degli amministratori.
Se la Città non discute, sul serio, nel profondo, di fatti, di metodi e meriti, di idee di futuro, del tutto e non della parte, l’uomo solo al comando, chiunque esso sia, non ce la farà mai.
Buona lettura e benvenuti i vostri commenti!