[Introduzione alla Conferenza “Expanding the Boundaries of Theatre Education” ospitata a Firenze dal Teatro della Toscana nell’ambito delle celebrazioni del G7 Cultura, il 30 Marzo 2017]
L’evento di oggi ha una fortissima valenza simbolica. Il primo G7 della cultura, proposto ed ospitato dal nostro paese, è infatti l’occasione di affermare con forza il ruolo strategico della cultura per ridisegnare la rotta, per offrire una visione di futuro ed una strada da intraprendere. Ed è anche l’occasione per affermare la leadership dell’Italia in questo delicatissimo e strategico compito.
La cultura, come sappiamo è molte cose assieme: è la nostra memoria storica, è uno strumento per acquisire competenze e produrre inclusione sociale, è un momento di puro piacere estatico, è una attività industriale, è quello che ci fa uguali e ci fa diversi e quindi permette l’incontro ed il dialogo, è una intuizione di un futuro non ancora scritto. Questa trasversalità del concetto di cultura è la sua forza, perché lo rende più ricco e penetrante, ma anche la sua debolezza, perché un concetto instabile diventa complicato da incasellare (per esempio accademicamente), da valutare (la cultura è o non è un servizio pubblico? – io credo proprio di si, ma non lo è sempre e non è scontato) e da finanziare (con voci di bilancio mirate e strategie chiare).
La cultura, quindi, è patrimonio e assieme salvaguardia e protezione del patrimonio e, ancora, al contempo, è dialogo e confronto con quel patrimonio per costruire un presente migliore e una nuova idea di futuro. La cultura è uno strumento per affrontare la crisi, riprendendo una riflessione di Marco De Marinis, “non nell’accezione corrente ma inesatta di involuzione, decadimento, o simili, ma in quella più corretta e stimolante […] di complessità e di problematicità”[1]. La cultura, quindi, come costruzione della complessità e come sua decostruzione, “traduzione” (nella ricca lettura steineriana del termine[2]), rielaborazione, spazio (civico, ludico, emotivo) dove il pensiero e l’azione vengono smontati, sezionati, raccontati e ricomposti arricchiti e innovati.
E il luogo per eccellenza dove questa scomposizione e ricomposizione, questo dialogo tra il minimo e il massimo comune denominatore, tra complessità e essenzialità, avviene e si riproduce da migliaia di anni, in tutto il pianeta, sono le arti sceniche. Dal teatro classico a quello contemporaneo i drammaturghi hanno posto domande e incalzato la natura umana a spogliarsi e mostrarsi nella sua interezza.
Il teatro è il luogo dove oggi si gioca la rilettura contemporanea del mestiere dell’interprete, recuperando la sua capacità di raccontare storie in grado di raggiungere e parlare al cuore e alla mente di un pubblico contemporaneo. La vera sfida è riannodare il capo del filo, la formazione, con la coda, l’utente finale, ovvero promuovere (e proteggere) l’atto creativo puro e totalmente libero ma, allo stesso tempo, e questo è compito primario del soggetto pubblico, fare sì che quell’atto creativo sia accessibile e comprensibile per tutti. Se, come ci ha insegnato Spinoza, l’equilibrio sociale si regge sull’equilibrio tra le rispettive libertà, possiamo immaginare la cultura come la libertà del creativo/interprete di esprimersi e la libertà dell’utente (dell’ altro da se) di dialogare con quella espressione, laddove in questo secondo caso il termine libertà si carica dell’accezione che ne da Amartya Sen, ovvero libertà non solo di “accesso” ma anche e soprattutto di comprensione e interazione, ovvero possesso degli strumenti e delle competenze per comprendere, scegliere e modificare il proprio destino.
Quindi, la giusta enfasi che oggi viene posta sul tema dell’audience development, in tutta la filiera dell’espressione culturale, è di fatto la richiesta che la cultura si faccia carico del ripensamento del senso dell’incontro, tanto più importante in un momento storico in cui da una parte scemano le risorse pubbliche per il settore – in rapporto all’offuscarsi del senso ultimo della sua mission – e dall’altro si fa sempre più fatica a costruire luoghi di relazione con i nuovi pubblici contemporanei, con le nuove generazioni, e con chi non è mai stato in uno spazio culturale e continua a non percepirlo come una necessità. Eppure di questa palestra del senso che è la cultura, in un’epoca storica di sempre più accese intolleranze e rabbie inespresse, ce ne sarebbe tantissimo bisogno. È questo il nodo del mandato pubblico nei confronti del progetto culturale. Far sì che si rilanci il ruolo della cultura come servizio pubblico. Fare sì che quell’atto creativo incontri vecchi e nuovi bisogni ma, anche e soprattutto, sia in grado di stimolarne di nuovi. È la visione del patrimonio come un bene comune e come un luogo di rilancio del senso del bene comune, uno spazio aperto che non si limiti a rispondere ad alcuni interrogativi (come portatore di informazioni, come archivio della memoria di un paese) ma, soprattutto, spalanchi domande e stimoli reti, processi, incontri. E giustizia sociale.
Si tratta di una sfida non scontata. Quella di ripensare la filiera teatrale, dalla formazione alla distribuzione, come una occasione inevitabile. Quella di ripensare un progetto formativo dopo decenni di sperimentazione sulla formazione mentre il concetto di professione è sempre più ambiguo ed instabile. Quella di produrre il nuovo, ricostruire e ampliare la filiera produttiva anche contaminandosi con nuovi linguaggi. La sfida è anche quella di ripensare il ruolo dell’artista all’interno del contesto sociale e, quindi, del mercato del lavoro, costruendo progetti formativi in grado di attivare nuovi progetti distributivi e in un circolo virtuoso attivare nuovi pubblici e stimolare la domanda di nuovi professionisti. Pensare all’artista che si confronta con il proprio spettatore. Questo è l’oggetto della conferenza di oggi, che affronterà il tema del rapporto tra formazione e mercato del lavoro, e tra produzione e pubblico, e ringrazio moltissimo i relatori per i preziosi contributi che porteranno oggi alla discussione e con i quali continueremo a discutere nei giorni e nelle settimane a venire.
La conferenza di oggi non è, infatti, un momento isolato di riflessione ma si inserisce all’interno di un progetto di una rete di formazione teatrale avviato da Piero Maccarinelli, Giovanna Marinelli e la sottoscritta assieme al Teatro della Toscana. Si tratta di un progetto che nasce dall’esigenza di promuovere il concetto di teatro europeo attraverso la condivisione di un sistema di formazione, produzione e distribuzione tra paesi con lingue e culture diverse, una sfida e un’indagine sul senso del coprodurre, del condividere un progetto artistico, esprimendo allo stesso tempo una identità forte ma anche le rispettive alterità.
Il tema del rapporto tra identità ed alterità scuote l’Europa e con lei il senso più profondo delle relazioni internazionali e della mobilità dei popoli. La sfida di incontrarsi mantenendo fede ai propri valori lacera una pace sempre più fragile e mette alla prova le scelte che i governi locali, europei ed internazionali compiranno nei prossimi mesi. Attraverso il teatro vogliamo chiederci cosa significa essere artista europeo, vogliamo indagare la stabilità di questo concetto, e comprendere se l’apertura mentale che hanno tantissimi giovani, che sentono un forte radicamento locale ma si percepiscono cittadini del mondo, può essere trasposto in una forte e chiara strategia di politica pubblica.
Obiettivo del progetto, dunque, è di testare un modello formativo condiviso e interculturale, che porti alla coproduzione di alcune opere da mettere in scena con uno sforzo produttivo congiunto tra più paesi e, soprattutto, con il coinvolgimento di pubblici diversi nei bisogni, lingue, culture. L’approdo finale è mettere in scena un nuovo artista europeo, offrendogli una missione ma, soprattutto, un spazio scenico dove incontrare un pubblico e, quindi, un futuro.
Capofila di questo progetto è il Teatro della Toscana, teatro nazionale di grande prestigio che è anche padrone di casa di questa conferenza, e a questo proposito ringrazio il direttore generale Marco Giorgetti e tutti i collaboratori che hanno contribuito alla riuscita di questa giornata, mentre la location di Firenze è fortemente simbolica, perfetta per ospitare il G7 della cultura. Si tratta infatti di una città che in tutta la sua storia ha giocato un ruolo chiave nella produzione e nella formazione culturale e ospita un patrimonio artistico inestimabile nonché alcune tra le istituzioni di formazione, conservazione e restauro più importanti del paese: dalla Biblioteca Nazionale Centrale agli Uffizi, dall’università di Firenze all’ Istituto Universitario Europeo, dall’Accademia di Belle Arti all’Accademia dei Georgofili, dall’Opificio delle Pietre Dure all’Accademia della Crusca.
Quale luogo dunque meglio di Firenze e questo palco per riannodare il legame tra passato e presente, e lanciare una discussione sulla valorizzazione del patrimonio e sul senso della cultura, delle culture, e dell’interprete contemporaneo. E a pochi giorni dalle celebrazioni dei trattati europei permettetemi di metterlo in evidenza: gli europei ci sono, ma l’Europa è ancora da costruire e il teatro, con la sua capacita di porre in evidenza dal vivo le idee della realtà che viviamo, può dare un contributo unico e fondamentale.
[1] Marco De Marinis, Dopo l’età dell’oro: l’attore post-novecentesco tra crisi e trasmutazione
[2] George Steiner, Turris Babel